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Robot a spasso per gli oceani

12 Maggio 2016 - Scienza
Robot a spasso per gli oceani

Li chiamano underwater robot e sono macchine autonome sviluppate dall’uomo per riuscire a superare l’ultima frontiera finora interdettagli, quella degli abissi marini e delle profondità oceaniche

Scivolano silenziosi sfiorando i fondali sabbiosi. Illuminano crepacci rimasti nell’oscurità per milioni di anni.
Percorrono dorsali, tracciano mappe, identificano, fotografano, raccolgono campioni. Nei mari e negli oceani del mondo attualmente ce ne sono in circolazione 5000. Capaci di immergersi sino a 6000 metri di profondità e di restare in apnea delle ore, i robot marini sono utilizzati principalmente per il monitoraggio e lo studio ambientale, la scoperta e il recupero di tesori nascosti, le missioni di salvataggio e, anche se se ne sa davvero poco e quasi tutto è tenuto top secret, operazioni militari.
Saliti alla ribalta grazie all’impresa di Skorpio-45, il minisommergibile telecomandato britannico, che l’agosto scorso riuscì in extremis a salvare sette marinai russi, rimasti bloccati all’interno di un batiscafo a 190 metri di profondità al largo della penisola della Kamchatka, i robot d’acqua sono considerati il settore di sviluppo più promettente della robotica, secondo solo a quello industriale, con ampi margini di incremento sia per l’evoluzione delle tecnologie marine e di terraferma, portuali in particolare, sia per l’indotto economico collaterale che ne deriverebbe da un uso sistematico. In sostanza: non si tratta solo di fare robot sempre più efficienti e resistenti, e in gran numero, si tratta anche di cosa e come queste macchine possono sfruttare le risorse dei fondali dei mari di tutto il mondo per alimentare e dare nuova linfa a settori economici apparentemente non collegati direttamente con la robotica.
“Attualmente”, spiega Antonio Pascoal, direttore del Dsor-Dynamical Systems and Ocean Robotics Lab dell’Instituto Superior Técnico di Lisbona, “abbiamo assolutamente bisogno di sostituire i sommozzatori con dei robot in grado di arrivare là dove i nostri limiti fisici non ci consentono. Le nostre macchine, per esempio, hanno scoperto forme di vita completamente diverse da quella terrestre. Si tratta di batteri anaerobici che potranno essere molto utili al fine della comprensione delle origini della vita, lo studio della biodiversità e anche per l’industria farmaceutica”.
Come sempre quando si parla di sviluppo, progresso e tecnologia, esistono zone di luce e zone d’ombra. I chiari e gli scuri si susseguono e bisogna mantenere un certo equilibrio per riuscire a ponderare i pro e i contro. Così se da un lato i più ecologisti tra di noi non riusciranno a frenare una sorta d’inquietudine circa le sorti future dell’ultima porzione di mondo rimasta illesa dall’ingerenza umana, dall’altro c’è da dire che gli Auv (robot completamente autonomi in grado di immergersi senza l’alimentazione del cavo ombelicale che li tiene collegati alla nave madre) e i Rov (robot semi autonomi che invece del cavo necessitano) possono svolgere mansioni decisive per la comprensione del pianeta in cui viviamo. “Il mio istituto”, racconta Dana Yoerger, direttore del Deep Submergence Laboratory del Woods Hole Oceanographic Istitution del Massachusetts, uno dei più importanti centri di ricerca e studio di tutti gli Stati Uniti, “si occupa soprattutto di oceanografia, ossia dell’esplorazione del mare a scopo scientifico.

La terra è fatta di placche, le cosiddette placche tettoniche, che si spostano frequentemente aprendo la strada a quelle che abbiamo scoperto essere delle bocche ipotermiche, ossia dei veri e propri geyser che sparano acqua calda in mare unitamente a delle sostanze chimiche”. Grazie alla resistenza alla pressione atmosferica e alla possibilità di restare in immersione lungo tempo, i robot subacquei sono riusciti ad approssimarsi ai fondali e a riprendere con precisione quanto avviene intorno a loro, riportando in superficie dati e campioni dell’ambiente in cui si sono immersi e anche mappature molto più nitide di quelle effettuate da qualunque sonar. “La cosa sorprendente che i robot ci hanno permesso di scoprire”, continua Yoerger, “è che quelle stesse sostanze chimiche alimentano l’ecosistema circostante al pari di quello che normalmente fa il Sole con le piante. Esistono degli organismi microbici che si nutrono di minerali, li trasformano in energia e si comportano proprio come esseri vegetali”

Per il professor Yoerger, dunque, i robot sono preziosi alleati dell’uomo. Non solo per la ricerca scientifica ma anche per l’archeologia sottomarina. Vent’anni fa, fu infatti grazie a Jason, un Rov impiegato in seguito anche in molte imprese di Bob Ballard, che Yoerger riuscì a localizzare e identificare il relitto del Titanic. “In quanto a notorietà devo molto al Titanic”, aggiunge Yoerger, “ma se dovessi dirla tutta non è l’impresa che più mi ha emozionato. Nel ’99 grazie ai nostri robot con il mio team riuscimmo a individuare anfore di argilla contenenti olio e vino del 700 a.C. L’utilità di queste macchine risiede nella possibilità di scoprire vicende a noi sconosciute e raccogliere elementi nuovi che ci aiutino a ricostruire la storia dell’umanità e a capire a fondo i meccanismi del mondo in cui viviamo”.

Vanto e orgoglio dell’ingegnere robotico Tamaki Ura, la flotta di Auv e Rov usciti dai laboratori dell’Underwater Technology Research Center dell’Università di Tokyo, rappresentano un fiore all’occhiello per l’intero Giappone. In un Paese frequentemente scosso dai terremoti e sottoposto a continua minaccia tsunami, è facile comprendere come gli underwater robot costituiscano una risorsa insostituibile per lo studio e la previsione delle catastrofi naturali. “I nostri robot”, spiega Ura, “sono unici al mondo e anche i soli in grado di portare a termine missioni altamente pericolose”.
Nel 1952, per esempio, il vulcano marino Myojin eruttò sul fondo del Pacifico. Da allora e per 50 anni, nessuno ebbe la possibilità di andare a rilevare quali sconvolgimenti il magma avesse operato sui fondali.

Almeno fino a quando Ura non calò in acqua il suo r2D4. “All’inizio del 2005”, continua a raccontare Ura, “abbiamo mandato il nostro Auv a esplorare i crateri del vulcano. Dopo quella famosa eruzione, infatti, se ne formarono tre. Tra cui il Rockes, uno dei più grandi del mondo, che giace a una profondità di 1000 metri ed è percorso da una corrente di 3,5 nodi marini. Impossibile da raggiungere per qualunque sub”. Seguito attraverso un monitor, r2D4 è rimasto in immersione 6 ore consentendo per la prima volta di verificare la conformazione del cratere. “La grandiosità delle nostre macchine”, aggiunge Ura, “è che possono andare a riprendere un vulcano nel momento esatto in cui sta eruttando. Senza contare lo studio delle sorgenti idrotermali e delle dorsali oceaniche. E di tutti quegli ambienti marini che un secondo dopo le riprese cambiano conformazione e che non avremmo mai conosciuto non fosse per le immersioni dei robot”.
Così mentre a r2D4 e ai suoi colleghi di stazza inferiore, una decina di Auv poco più grandi di un uomo e del peso di soli 200 kg, va il merito del monitoraggio geoambientale, quello che il professor Ura non racconta è che una delle missioni affidate alla macchina è quella di seguire le balene nei soli momenti in cui riescono o, meglio, riuscivano, a sfuggire al controllo umano: la fase dell’apnea. R2D4 ha la capacità di scendere al loro seguito fin negli abissi più profondi e poi trasmettere alla nave madre la loro posizione con estrema precisione. Per un Paese che fa di una specie in via di estinzione un piatto prelibato, questa è senz’altro una buona notizia. Non lo è, nonostante le rassicurazioni dell’ingegnere sull’uso specificamente scientifico e non commerciale del robot, per tutti coloro che hanno a cuore la sorte di questi mammiferi e dei loro colleghi delfini. E se Ura sogna di “fondare una repubblica degli Auv”, ci sono scienziati che, al pari di Pascoal, in Europa si chiedono: “Ma al posto dei robot sottomarini, non sarebbe il caso di cominciare seriamente a utilizzare mammiferi con chip sottocutanei telecomandabili?”.